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Angelo:

ho quasi 18 anni e lavoro alla S.Giorgio per conto di una ditta di manutenzione. Venerdì pomeriggio sarei voluto andare al cinema e invece, spintonato e quasi malmenato, mi trovo nel primo vagone del secondo dei due treni fermi allo scalo di Campi e pronto a partire, stipato fra compagni che non conosco, sotto la scorta armata di tedeschi, repubblichini e uomini della sezione politica della Questura. Basile, il prefetto di Genova, ha dato seguito alle minacce, siamo puniti per gli scioperi fatti, la destinazione sarà la Germania. Facciamo varie soste, anche a Milano dove mia madre fortunosamente è riuscita ad arrivare appena la voce del rastrellamento si è diffusa in città, ma il nostro treno merci parte prima che lei arrivi. Questo naturalmente l’ho saputo al ritorno in Italia. Ho chiaro tutto dell’arrivo a Mauthausen: la spogliazione degli oggetti di valore e personali, la doccia, la traduzione del discorso fatto da un graduato tedesco circa il nostro futuro, i 20 giorni trascorsi nel campo di quarantena in una baracca sporca e con un po’di paglia in terra per dormire, il cibo quotidiano scarso e ripugnante a tutta prima ma che ben presto è richiesto dallo stomaco e accettato dal palato per tutto il tempo della prigionia. E’ qui che faccio il primo incontro con gli “zebrati”, i prigionieri politici con pantaloni, giacca cappello a righe e triangolo rosso, magrissimi, ci portano il rancio e  ci chiedono bisbigliando di quale nazionalità siamo. Sono costernato, mi assale la pietà e la paura di diventare uno di loro. Finalmente esco da Mauthausen, sono avviato al lavoro. Ne cambio parecchi, il migliore è in un cantiere navale sul Danubio chiamato”Schiffswerft” dove faccio il mio mestiere di tubista come risulta anche dal tesserino di lavoro con foto e n. di matricola che mi è stato rilasciato. Ma non dura.Sono trasferito ad Ebensee, uno dei campi satelliti di Mauthausen e qui rivedo gli “zebrati”. Per protezione contro i bombardamenti, si lavora dentro gallerie scavate nelle montagne. Ho saputo che si costruiscono pezzi per carri armati, e missili- forse le armi nuove di cui ho letto sui giornali in patria, quelle che dovrebbero far vincere la guerra ai tedeschi- si produce anche benzina sintetica.Insieme con altri prigionieri sono addetto alla costruzione dei forni crematori. Vengo a sapere che i morti di Ebensee sono sempre stati trasportati a Mauthausen e là bruciati, ma ora il lager è molto ingrandito e forse per l’economia del regime è più conveniente svolgere tutto in una sola sede: sfruttare i deportati con un lavoro massacrante di 12 ore e più, con interruzioni brevissime per una brodaglia, con abiti insufficienti a proteggerli dal gran freddo delle gallerie, sfruttarli fino alla morte alla fine qualche volta accelerarla e poi usufruire dei nuovi forni crematori, risparmiando sul trasporto e senza rallentare il lavoro dei forni di Mauthausen. Dall’Europa occupata, d’altra parte, la mano d’opera affluisce “fresca” quasi ogni giorno. Gli “zebrati”, dovrebbero fare da manovali e passarci gli strumenti di lavoro, ma spesso denutriti come sono non riescono quasi a stare in piedi. Bisbigliando riusciamo a sapere qualcosa della loro nazionalità: nel campo dicono, ci sono polacchi, francesi, russi ed anche italiani ed ebrei, ma io con questi non vengo in contatto. Cerchiamo nascostamente di aiutarli, di dividere con loro la brodaglia e il poco pane, di farli lavorare il meno possibile, nonostante le urla e le punizioni minacciate delle SS.Sono tornato poi al cantiere sul Danubio e qui sono rimasto fino alla fine della guerra. Il mio incubo? Il ricordo degli “zebrati”che ancora suscita in me lo spettro della morte.  Non sono mai voluto tornare a Mauthausen e ad Ebensee. E’ cambiato, mi dicono, ma io vedrò sempre, ne sono sicuro, gli “zebrati”.